le raccoglitrici di olive

 

“… che spettacolo osservare queste centinaia e centinaia di donne, chine tutto il giorno sotto gli alberi, raccogliere, controllate dallo sguardo dei guardiani, le olive; riempire i panieri e portarli per la misura ….”. È don Ciccio Godino, indimenticabile parroco a Rossano e arciprete di Longobucco, che così scrive nel 1966, da testimone attento di un’epoca. A sua volta Tommaso Giudiceandrea, nel suo bel libro del 1998 “Lettere ai figli”, ricorda di quando ragazzino assisteva a Longobucco agli esodi di intere famiglie che partivano per la “Marina”, cioè Rossano e Corigliano, per andare a guadagnarsi da vivere con la raccolta delle olive lavorando “dall’alba al tramonto chini a raggranellare chicco per chicco il prezioso frutto”.  Alla Marina, è sempre Godino che parla, fino agli anni ’50 e ’60, continuava “a persistere una chiara configurazione feudale ….. e nei rapporti con i braccianti – la maggioranza donne – che lavorano in condizioni disumane, riscuotendo poca paga. La povertà d’istruzione della manodopera rurale, fa sì che i raccolti, ed ogni fase di lavorazione dell’olivo, si svolgano in modo antiquato. S’ignorano i più elementari sistemi di bacchiatura e le olive sono raccolte per terra, man mano che ‘piovono’ dai rami”. A proposito degli alloggi utilizzati durante il periodo della raccolta, Godino aggiunge: “Le raccoglitrici, in casa, vivono nella promiscuità più completa: i servizi igienici mancano quasi totalmente, la notte su ogni materasso dormono 3 o 4 persone”. In tale contesto suonano appropriate le parole di don Giuseppe Caliò che nel suo romanzo, “Uomini Curvi” del 1988, esordisce dicendo che “La terra che Dio ha creato perché tutte le sue creature ne traggano l’alimento … non è di tutti: lavorata da tutti eccetto che da pochi, frutta soltanto per quei pochi che non la lavorano”. La situazione era così degradata che anche monsignor Giovanni Rizzo, nominato arcivescovo di Rossano il 15 gennaio 1949, preso atto delle miserevoli condizioni di vita di queste lavoratrici, avvertì la necessità di intervenire sulla questione in previsione della campagna olearia 1952/53. “Intere famiglie – disse – si trasferiscono dai paesi di montagna nelle pianure, recando seco quanto loro possibile, le poche masserizie indispensabili alla degenza invernale fuori casa, in cerca di pane”. “Da quanto ci è dato conoscere – per diretta constatazione – le condizioni di vita, il salario e il trattamento generale di tanta gente che viene a prestare il suo prezioso servizio, non sono sempre e dovunque adeguati alle esigenze della dignità umana, del diritto naturale e della legge cristiana”. “… in non poche contrade le raccoglitrici vengono alloggiate in ambienti umidi, bassi, bui e spesso sistemate in dormitori comuni dove l’igiene e la decenza non sono affatto rispettate: talvolta, comitive di uomini e di intere famiglie, trovano alloggi in fienili …” “un considerevole numero di operai e raccoglitrici si sobbarca a fare la strada dal paese al luogo di lavoro a piedi, due volte al giorno …”. “… Non si rispetta l’orario di lavoro, non si concede il necessario riposo settimanale né si permette di assistere nelle feste e domeniche alla S. Messa”. “.. per il pesante lavoro di intere giornate spesso viene corrisposto un salario non corrispondente alle necessità! … E in alcune zone, addirittura irrisorio e degradante”. Anche la RAI si interessò delle raccoglitrici di olive calabresi con un famoso reportage del 1959 curato da Ugo Zatterin e Giovanni Salvi per la serie “La donna che lavora”. I due autori raccontarono che molte delle raccoglitrici di olive uscivano di casa all’alba e, dopo aver percorso vari chilometri a piedi, raggiunti gli oliveti, lavoravano dalle dieci alle tredici ore al giorno. Poi, tornate a casa, si dedicavano ai lavori domestici. Quelle che invece arrivavano da più lontano, erano sistemate in dormitori, in pratica delle grandi stanze dove venivano riunite molte persone, oppure ospitate in piccoli locali bui, privi di finestre e di cucina. L’assistenza sanitaria era assente e poiché non c’era nessuno a cui lasciare i bambini, le donne portavano i figli più piccoli nei campi, mentre i più grandicelli, tolti presto dalla scuola, prendevano parte alla raccolta come gli adulti. E poi c’erano gli abusi sulle donne da parte dei proprietari terrieri e dei guardiani. Don Ciccio Godino, da sacerdote, ne accenna con tatto e diplomazia, ma non sorvola sul problema: “Le condizioni morali sono solo da prevedere e non da descrivere … Il peccato originale, nelle sue conseguenze, purtroppo è una realtà anche nel XX secolo!”. Ne parla invece in modo più esplicito Domenico Machera, primo sindaco socialista nel 1920 di Campana, nel suo affascinante libro “Vita servaggia” del 1970. Machera racconta che i proprietari terrieri per dare lavoro “sceglievano i più sani, i più laboriosi, i più bonaccioni, i più accontentabili e qualcuno che aveva la moglie o qualche figlia attraente”. Per poi aggiungere: “..Quante donne madri .. furono obbligate dalla miseria a prostrarsi ai piedi degli ostrogoti tiranni e offrirsi … alla più basse e odiose umiliazioni, …”. “Le rappresaglie, le angherie, gli abusi, erano gli arnesi più usati e più agevoli per appagare gli appetiti dei maramaldi”. Pertanto si assisteva a una “continua proliferazione di bastardi che venivano ad aggravare il fardello degli sventurati coniugi con quello della vergogna e del disonore con le più oltraggiose conseguenze”.

 

 

 

 

Godino Francesco. Il problema delle raccoglitrici di olive nella Piana di Rossano negli anni 50 60. Rossano 1966

Giudiceandrea Giovambattista Tommaso, Lettere ai figli, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli 1998

Rizzo Martino A., Come era dura la vita delle raccoglitrici di olive. Informazione & Comunicazione 8.12.2021

Machera Domenico, Vita servaggia, Napoli 1970