Franco Costabile e le sue poesie
Le 85 poesie presenti nel sito
Verbaro Caterina, COSTABILE Franco. in Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea
Fonti: https://it.wikipedia.org/ http://www.ilportaledelsud.org/costabile_franco.htm http://www.aristidecaruso.it
PER ALTRI SENTIERI
Per altri sentieri
torneremo alla piana
celeste di ulivi.
Saremo
dove si leva
l’infanzia dei profumi;
dove l’acqua
non si fa nera
ma vacilla di luna;
dove i passi
avranno memorie di solchi
e le dita di melograni;
dove ti piace dormire
e ti piace amare.
Sono questi gli orti,
i confini per ricordarci.
NELLA TUA NOTTE
Nella tua notte
io solo ti vedo
colma di luce.
Ai miei occhi
poveri di storia
si rammenta
il gioco a mosca cieca
delle lucciole:
tu ed io
nel sonno degli ulivi.
E LA FRAGRANZA
E la fragranza
raccolta nei capelli
alla corsa dei pini;
e lo stagno paziente
al gioco dei tuoi sassi;
e le altre cose
scomparse:
anche la primavera
stanca di rose
si è spenta.
Non torneremo
su questo altipiano beato
quando s’inaugura
la fiera delle stelle.
L’ alba si leva
in frusciar di colombe:
e tu sei partita.
Che pena ascoltare
il fischio del trenino
alla pianura.
NEL TUO GRANO
Nel tuo grano ebbi regno:
li tu venivi piena di lusinghe
con un saluto in musica
di passere spaventate.
E DOV’ERANO SOLO FILI D’ERBA
E dov’erano solo fili d’erba
un poco innamorata e un poco stanca
ti piaceva guardare il mio paese
bianco nel sole in cima alla collina
come l’incanto d’una Betelemme.
Ed i silenzi immobili del bosco
leggevano le favole più antiche.
Ma non udremo più nell ‘ alba chiara
i colpi dei fucili nella valle,
ne passare nel cielo rivedremo
la rondine che ha voglia di balcone.
I nostri giorni sono fulminati.
DAI CAMPANILI
Dai campanili
dipinti di silenzi casalinghi
voce in paese non discende ormai.
Rimane nel cielo di lilla
che si vuota di rondini ogni sera.
Ma basta al cuore
il fumo dei comignoli,
il passo di chi torna
dalla via degli ulivi.
FRA I PINI
Fra i pini
un po’ prima di sera
s’ affaccia una stella
a pescare sul lago,
e vi sorprende gli angeli
giocare in pace
con barchette di carta.
QUESTO AMORE
Questo amore
non fu difficile
allor che dalle guglie
luccicanti dei covoni
tornavano le passere
al fresco dei mulini.
Ora ti cerco,
non mia,
emersa da un dolore.
LISETTA
Lisetta
è caduta nel fiume.
In punta di piedi
stendeva le manine
verso una lucciola
vagante più in là.
Una bimbetta come tante
che aveva dipinta negli occhi
la voglia del paese dei balocchi.
Rompeva
le statue di gesso,
scordava il pianoforte
nei salotti.
Non dava pace
alle chiocciole dell’orto
e tornava dal nonno
perché le rifacesse
il fumo del trenino con la pipa.
Qualche vecchio santone del cielo
con lei
smetterà di pregare.
È PRIGIONE
È prigione
questo cortile
dove torno.
Attendo che tu mi porga
come allora
la prima rosa bianca
cresciuta
sotto l’azzurro dei tuoi occhi.
AMO I TUOI CAPELLI
Amo i tuoi capelli
riversi sulla bocca
e il tuo sorriso
sparso nel bianco dei cuscini.
Amo le tue pupille di stagno.
Amo. E dimentico.
L’OMBRA GELA
…E l’ombra gela
questa pietra antica
dove quasi per gioco
ti feci la promessa
di un velo di sposa
com’ era la Via Lattea
che guardavi.
PURE I CIELI AZZURRI
Pure i cieli azzurri
tramontano,
e dentro il mio cuore,
se ritorno ai sentieri
dove più non sei.
Fummo insieme
fra i ciliegi
e le tortore di aprile
a guardare le onde
dei colli lontani
ove dolce finiva
la patria del sole.
HO ATTESO LE FOGLIE GIALLE
Ho atteso le foglie gialle
come un’ ansia d’ amore.
lo non so come sono le rose.
TU VOLEVI UNA CASA
Tu volevi una casa,
bambini e fiori:
ed anche i fiori
morirono, lenti nel sogno.
Il mondo
è in quella terra
di silenzi addolorati,
ed io vivo
col sale del tuo pianto.
PIACI SE VAI
Piaci se vai
con l’anfora sulfurea
nel palmento.
Piace
il tuo giubbetto a corazza
e la gonna
di fitte piegoline
che ti scopre
le buone caviglie.
Nel chiarore dell’alba
tintinna l’ottone
al collo delle vacche.
Qualcuno
che accomoda il torchio
ricorda l’odore
dell’olio d’oliva
nei tuoi molti capelli.
SI SCIOGLIE LA LUNA
Si scioglie la luna
nei getti felici del mosto
che scorre nell’imbuto.
E tu, amore,
riversa sotto il traino,
ora che si accende
e vacilla il petrolio
alla lanterna,
ti riposi
ad una breve cantilena
d’organetto.
Questa notte
alI’ aroma del fieno
berremo il vino nuovo
come tu volevi.
I TINI SONO VUOTI NEL PALMENTO
I tini sono vuoti nel palmento
e la lucerna illumina al padrone
la bocca della donna forestiera.
E si lamenta, piange la chitarra
del massaro.
Fra le raspe dell’uva nella strada
la bambina con il viso di mosto
guarda la luna negli occhi del bove.
E si lamenta, piange la chitarra
del massaro.
ROSARIA LAVA
Rosaria lava
all’ombra d’un ulivo;
di sopra canta
il passero d ‘estate.
Sogna le scarpe
e ninnoli di fiera;
e l’ acqua scorre
per andare al sole.
Stende in amore
la cuffietta azzurra;
scivola in acqua
il pezzo di sapone.
II VINO ROSSO
II vino rosso
va dentro la stalla.
C’è voglia
di ridere, ballare,
e i coltelli
stanotte sono a casa.
Con uomini e chitarre
il maresciallo torna alla caserma.
AL FIUME
Al fiume
chitarre in penombra
son finite ne) gelo
dei chiarori.
Beccai nella piazza
agganciano fuori
le teste dei capretti
e un cane lento
ne beve le stille.
Si sveglia
nei vicoli il dialetto,
dalle stalle comincia
la nausea del fieno.
Bussa il giorno
al mio corpo:
stanche di tenermi
risuonano le ossa.
TARANTELLA D’ESTATE
Tarantella d’ estate
che fai vibrare
i seni alle ragazze
e ribattere il piede
alla vecchiaia
che sa di baffi
e sigaro toscano,
tu finirai stanotte
con le stelle
se qualcuna
condotta per mano
salirà verso i vigneti in fiore
mentre in giro per l’ aia
Si assaggia
il vino d’una botte antica.
FORSE MORRÒ SOPRA QUESTA CHITARRA
Forse morrò sopra questa chitarra
che conosce il tumulto del mio sangue.
E se bisogna attraversare il cielo
l’appenderò sul corno della luna.
QUESTO BREVE CANALE DI SOGNI
Questo breve
canale di Sogni
lentamente si perde
nel risucchio
della grande riviera.
NEL PORTO CHE S’ANNULLA LENTAMENTE
Nel porto che s’annulla lentamente
questa l’ora dei remi, amore mio.
Per la rotta dell’isola felice
il breve cielo delle tue pupille
sciacqua la luce d’una stella chiara.
PERFETTA
Perfetta
ora che ti vedo
sul patino riversa,
gli occhi chiusi
alla luce del sole
e i capelli
dal colore di birra
sciogliersi a fiore d’onda
dolcemente.
Potessi averti così
sempre negli occhi,
creatura marina
TURBA
Turba
l’adolescenza del tuo petto
al gioco delle spume
e la solarità dei tuoi capelli
nata d’improvviso
nel levarti la cuffia.
Un tremito di luce
scocca
sulle gocce salmastre del tuo viso
Piaci,
creatura d’estate,
e sei dolore:
nei reami del cielo
è aria di settembre,
d’abbandono.
ANDRAI CON ALTRA VELA
Andrai con altra vela
all’ora degli scogli.
Altra luna avrai,
altre note di mare.
Dimmi se torni:
non basta sul pontile
un suono d’organetto;
l’ alba non spuma
in tripudio d’antenne.
Ho le mie mani
vuote delle tue.
AVANZI DI OSSA
Avanzi di ossa
corrose dal sale
di altri paralleli
stanotte
il mare risciacqua
sulla battima illune.
Lievita intorno
un sonno di annegati
e il vento
come un dio ferito
ai neri faraglioni
si rifugia.
Si perdono qui le mie notti.
E se a volte
quest’acqua mi chiama
non ho che remi d’ossa per andare.
MA DOVE TORNARE
Ma dove tornare
se più nulla
rimane di noi;
dove cercare la sera
e il vento che ti odora di grano
nei capelli;
dove, se non possiamo,
se Inganno
è credere ancora.
E’ da tempo finita
la passeggiata del sogno
al bianco santuario delle stelle.
Che pena rivederti,
amor mio,
se nei tuoi occhi
l’ antico splendore
rinasce
e la tua voce
mi suona immortale.
Ma dove tornare,
dove cercare di noi,
amore mio.
IO, LASSÙ
Io, lassù,
fra gli alberi anneriti
non potevo più vivere.
E abbandonai le carbonaie
dentro il fumo pesante dei meriggi.
In principio vagai
con un poco di sole
e quattro soldi di stelle per sera.
E mi bastava;
perché meglio sentissi la mia libertà.
Poi venne l’inverno
e lo passai nella grotta del pastore
che mi disse le favole più vere
con le pelli di capra fino agli occhi.
Al tepore di marzo
arrangiai una debole avena
nel luccicare delle canne al fiume,
e me ne andai con un inverno in più
fra memorie di sassi e lucertole nuove.
Suonavo la vita
delle mie carbonaie
e i giorni diventavano più lunghi
nel profilo d’un colle,
d’un lembo di mare, d’un uomo.
E la città. La grande città.
Vi arrivai una domenica d’estate.
E da allora, anche oggi,
umiliato rasento le vetrine,
l’aria calda e odorosa dei forni;
fra le cicche e gli sputi
raccolgo la pietà del marciapiede.
Signore,
io non voglio impararti
come un altro mestiere.
So di che lievito è il pane dell’uomo.
E voglio cercarti in silenzio e in amore
dove matura il grano.
NEGLI ANONIMI SPAZI
Negli anonimi spazi
di città
non ho più nulla
degli anni perduti.
Ed a quest’ora
nella vecchia casa
un topo di soffitta
si nutre del cartone
d’un cavallo a dondolo.
TU NON PUOI
Tu non puoi
intendere le notti
del marciapiede,
la mia vita alla luce
delle insegne luminose:
erro, con passo
da soldato sconfitto.
GIORNI RIPOSATI
Monti,
orizzonti,
golfi
di sapienza.
Un passero
cinguetta in calabrese.
Boschi dorati, la nonna è all’arcolaio.
Giorni riposati,
il grano è nel solaio.
CICALE
Nelle ceste dell’asino
un anno di campagna passa.
Trenta cicale restano incantate
e la sera guarda dai tetti.
LA LORO OMBRA
Splende
la piazza
già tranquilla
di cielo
e di botteghe,
ma quei ragazzi
andati al Venezuela
hanno scritto la loro ombra
lungo i muri.
BRACCIANTE
Il bracciante la sera
si guarda nella bettola
il manifesto del piroscafo
e degli uccelli bianchi.
Lui e il suo Cuore
non vanno d’accordo.
LA CHIESA
In piazza
all’angoletto
è così piccola,
per gente così buona
e poverella
che mi spiace
non vi entri un cardinale.
MOSCHE
Mosche,
primo blu della vita.
Raccontatemi voi
qualche dolcezza,
ditemi almeno
fin dove arriva nel vicolo
un raggio di sole.
ACQUA DI MENTA
Carmela,
pelle scura,
porta frasche
da nord a sud
della sua solitudine,
ma stamane
sulla porta di casa
si bacia il bambino
guarito con acqua di menta.
IL GALLO CANTA
Al Muraglione
il gallo canta
e il bracciante
è già nella vigna
che si sputa le mani
e incomincia a zappare.
RAGAZZI
A scuola
non ci vanno,
e già puntano
bottoni di tristezza
a una partita a carte
sotto il ponte.
EPITAFFIO
Aveva
una vigna
in collina
ma
è morto
a Milwaukee
non qui.
UN PEZZO DI SPECCHIO
Ha casa campagna
e lenzuola di telaio
ma nessuno la guarda
la domenica in chiesa
e aspetta alla finestra
un poco per giorno
chiedendosi forse
a che serve nel vicolo
guardarsi a un pezzo di specchio.
SONNO DI GAROFANI
L’acqua
del paese .
ancora scorre
senza tubature,
ne s’alzano antenne
architetture
di pulegge e gru
perché gli uccelli
possano sbagliare.
C’è pace
vita chiara
di donne di bambini
di carri tirati dai buoi
e a sera, quando ai balconi
c’è sonno di garofani,
due stelle bizantine
s’affittano una stanza
nel cielo della piazza.
ELEZIONI
Elezioni,
processioni,
damaschi
sui balconi.
L’ onorevole
torna calabrese.
E TU, VECCHIO
Di pelle scura
non crescerà tuo figlio;
giocherà forse a baseball,
sarà padrone di una drogheria.
E tu, vecchio,
l’orologio d’oro,
scorderai questi vicoli
bevendo birra a Daisy Street.
FREDDO E FAME
Freddo e fame a gennaio
lunghissima notte, e per scaldarsi
mettono al mondo altri figli.
QUATTRO PALLATE
Morì
proprio qui,
salute a noi.
Lo presero alla schiena,
quattro pallate.
Brutto paese, caro mio.
Amaro chi ci capita.
Il RESTO NO
Una capra
che fa molto latte
è conosciuta
in tutto il vicinato.
Questa la ricchezza
che ci fa campare.
Il resto no,
che vuoi che t’importi.
Pochi sanno
i beni della terra
come quelli che vivono
in collina,
dov’è tempo
di alzarsi assai presto,
chiamarsi le capre, e partire.
AUSTRALIA
Era come te
nella vigna
un giorno di marzo
di vento di sole.
Di tanto, o padre,
non t’è rimasto
che qualche cartolina
a un angolo,
sul vetro della cristalliera.
RIDENDO LE RAGAZZE
È dentro una nuvola il mattino
fra queste case calme, dove a volte
passa, nel lusso d’un raggio di sole,
un venditore d’aghi e di merletti:
il fumo sopra i tetti è già tranquillo,
vanno all’acqua ridendo le ragazze
e la freccia che indica oltre il ponte
nessuno sa dove voglia portare .
ROSA
Un gallo
ha cantato
e Rosa
col bambino
che dorme
nella cesta,
già aspetta sul ponte
per andare
a raccogliere olive.
Anche Rosa
è stata ragazza
da farsi guardare,
la voleva il barbiere
che suonava la chitarra
sotto casa,
ma il padrone un giorno
se la portò dietro una siepe.
Ora Rosa
si aggiusta lo scialle
e pensa
che anche questa
è una vita,
allevarsi un bambino
e star zitte.
CALABRIA INFAME
Un giorno
anche tu lascerai
queste case,
dirai addio,
Calabria infame.
Solo
ma leale
servizievole,
ti cercherai
un’amicizia,
vorrai sentirti
un po’ civile,
uguale a ogni altro uomo;
ma quante volte
sentirai risuonarti
bassitalia,
quante volte
vorrai tu restare solo
e ripeterti
meglio la vita
ad allevare porci.
TERRA REALE
Ulivi,
ducati
d’argento.
Ulivi,
costati
di donne.
Sempre
c’è ulivi,
terra reale.
ATTENTO
E’ tempo
di aranci,
di mercanti.
Attento,
padre mio,
Ladri in vista!
COLTELLATE
Due coltelli
luccicavano stanotte
sotto l’arco.
Nel vicolo
il mareschiallo fa domande.
PROMETTE ORECCHINI
Le ragazze
che al feudo
raccolgono le olive
il padrone
se le guarda
a una a una
e promette orecchini
a quella che gli piace.
CERTE SERE
Certe sere
il padrone
ci scherzava,
adesso è la padrona,
si gode una casa
di sette balconi.
BERNARDO
Lui sì
ch’era uomo,
nessuno
poteva dirgli ma…
Chiamava a se le capre
e zitto, partiva.
Eppure
poteva spiegarti
settant’anni
di queste colline,
numerarti le frane
da Maida a Sant’Elia,
mostrarti dov’ era il lazzaretto
dirti tutto sulla malaria.
Ma taceva,
meglio le pietre e il vento.
Tu non puoi ricordare,
eri ancora un ragazzo.
ALLA PARROCCHIA
Morto
di paralisi
sul petto
d’una serva
ha lasciato
le vigne
alla parrocchia.
VECCHIO PORCO
Vecchio porco,
di com’è andata.
Racconta tutto
per filo e per segno.
Era vergine?
Su, di’ com’è fatta.
MEGLIO LA LUNA
Il sole
è dei feudi
come l’acqua
e i cavalli.
Meglio la luna
che aiuta a rubare.
SCALPITA LA MULA
Dorme il gallo
e continua la luna
oltre i canneti.
Una lanterna
già nel vicolo è accesa
scalpita la mula:
è l’alba calabrese
che ruba al contadino
anche il sonno.
DOPO IL VINO E LA DONNA
Il proprietario
dorme al pergolato,
dopo il vino e la donna.
Lontano,
a un orizzonte di calura,
continua all’aratro
l’ecce homo.
È DEL PADRONE
La terra
che attraverso
prima del gallo
è del padrone.
Il grano
che mi cresce
sotto gli occhi
mattina per mattina
è del padrone.
I colpi di fucile
che vengono dal fiume
sono del padrone.
Le donne,
le risate sull’aia
a mezzogiorno
sono sempre del padrone.
Ma il sole che mi scalda
non è del mio padrone.
EHI, CAFONE
Ehi, cafone.
Dove vai così presto?
PERSONALE AL COMPLETO
ATTENTI AL CANE
SCIACQUA LE GIARE
Fra torsoli
rigagnoli neri
gioca un bambino
col cucchiaio,
e la donna
sciacqua le giare
del nuovo assessore.
Nel sole,
lento si scolla
un manifesto elettorale.
LA PIAZZA
Un bar le mosche
lo stemma della Repubblica
<<Sale e Tabacchi>> e due botteghe
dove il pane si vende a credenza.
Triste sarebbe, se la rondine un giorno
non svoltasse di qui.
MEGLIO UN APPALTO
Nella bottega
su un sacco di granturco
l’avvocato che dice la cronaca
dei sovesci di veccia e di trifoglio
a un vigneto povero, e ricorda
la pioggia che adesso non ci vuole.
Meglio un appalto, commenta l’assessore.
A trovarlo, dio solo lo sa
quanto costa oggi uno zappatore.
SENZ’ARIA DI CONGRESSI
Tornano dai campi
gli uomini in bicicletta,
passano per la piazza
e una carretta carica
sobbalza lontano.
Ma sotto i tetti
fra parole buone
continua dentro il cuore
l’aratura sospesa nella sera:
l’umile Italia vive
per questi solchi
senz’aria di congressi.
I PALI DEL TELEGRAFO
I pali del telegrafo,
ecco che c’è di nuovo
al mio paese.
Parole lunghe
traffici di prefettura
fonogrammi neri
che vanno e vengono
dalla questura.
Ma c’è di bello
che i passeri sui fildirame
se ne stanno a cantare
tutto il giorno
e a non saperne niente.
LA SILA
Il lago,
gli abeti,
dici bene
la Svizzera.
Mettici
i fiorellini
e in lontananza
le pastorelle,
le mucche calme lavate
nel sole che tramonta,
d’oro naturalmente,
dietro i pini, perfetto.
Mangi
di buon appetito,
dormi a sazietà.
Se poi,
quella gente
ci vive d’inverno
col pane di segala
e i lupi,
a te, che importa.
Te ne stai
nel calduccio, in città,
raccontando agli amici
il verde odoroso dei pini.
SUD
Sud,
tavola nera,
pane di granturco.
Vino
fedele al suo sangue,
buon amico.
Sud,
coltello
sotto i ponti,
spilla d’oro
al santuario di Pompei.
Sud,
imposta
sul sale,
guardie di finanza
lungo la spiaggia.
È il sole,
sacramento dei pezzenti.
NESSUN ANNIVERSARIO
Stamattina, amici,
vorrei che sventolasse la bandiera:
nessun anniversario: è primavera.
CE N’È DI PAESANI
Ce n’è
di reste d’agli
nelle case,
di cartuccere
e di madonne appese.
Ce n’è di donne
scalze senza pane
a raccogliere frasche
a vendemmiare.
Ce n’è di gente
che zappa e non parla
perché pensa
a un’annata migliore.
Qui tutto
è come prima,
tranne i morti.
Ce n’è
di caporioni
sotto il sole,
di fichidindia
e pistole lucenti,
Ce n’è di ulivi
bruciati nella notte
fucilate
a finestre e balconi.
Cantano
tutti i galli
aurore e carabinieri.
Soltanto i morti
non hanno pensieri.
Ce n’è
di lupi
e padroni
in collina,
ce n’è
di commissioni,
progetti di strade,
e piove,
passano inverni
e parole.
Qui tutto
è come prima,
come prima dell’acqua
e delle capre.
Ce n’è
di lettere di parroci
per Roma,
di passaporti
sogni americani.
Ce n’è
di paesani
per il mondo,
tutti padri e fratelli
alla ventura,
così la bocca
non puzza di cipolla.
Qui tutto
è come prima,
tranne voi,
onorevoli,
governatori,
voi, amici,
Leonardi da Vinci
della Cassa del Mezzogiorno.
MIO SUD
Mio sud,
mezzogiorno
potente di cicale,
sembra una leggenda
che vi siano
torrenti a primavera.
Mio sud,
inverno mio caldo
come latte di capre,
già si dorme
fratello e sorella
senza più gusto.
Mio sud,
pianura mia,
mia carretta lenta.
Anime di emigranti
vengon? la notte a piangere
sotto gli ulivi,
e domani alle nove
il sole già brucia,
i passeri
a mezz’ora di cammino
non hanno più niente da cantare.
Mio sud,
mio brigante sanguigno,
portami notizie della collina.
Siedi, bevi un altro bicchiere
e raccontami del vento di quest’anno.
Mio treno di notte
lento nella pianura
Battipaglia… Salerno…
mio paesano, stanco sulla valigia,
cane vagabondo.
Mio questurino
davanti a un’ambasciata,
potevi startene adesso in collina
e dare sotto le foglie il verderame,
sentire l’aria la terra,
le ragazze dell’altro versante
darti una voce.
Potevi essere
anche un perito agrario
se a casa potevano,
intenderti di migliorie, d’allevamenti,
e pensare un trapianto a primavera.
O forse eri solo un manovale,
lavoravi a giornate, forse non lavoravi.
Adesso un silenzio, il giorno:
da qui a lì, e niente succede.
QUESTE LE NOTIZIE
La moria
delle galline
al Muraglione,
l’Amato che straripa.
Queste le notizie,
i grandi avvenimenti
che ti aspetti.
Ciò che accade
di importante nel mondo
nel tuo vicolo è un’eco
sempre di crepacuore.
TUTTI GLI ANNI È UNA STORIA
Ti chiedi a che serve scalzare
tre o quattro migliaia di viti
sotto un sole che spacca le pietre,
e la schiena ti crepa davvero
se alzi un zappone a prima mattina.
Ma poi, hai rotto, impalato, inzolfato,
il ramato l’hai preso a credenza,
da quando hai veduto le prime tue foglie
non hai più dormito, nessuno ha dormito.
Poi, che ci fai con un vino
che vendi a due soldi.
Tutti gli anni è una storia.
Col tempo potresti cambiare le viti
come ha fatto il barone,
così 1 ‘uva ti cresce pisciarella,
ma chi ha soldi per questo.
Adesso che piove
hai bisogno d’un paio di scarpe,
la sera ti guardi tua figlia
le sue labbra sempre screpolate,
e dici Genova, un posto a Milano,
si trovasse una qualche amicizia, una chiave,
la porta del Vaticano.
Ti spieghi così come un poco per volta
una via perde un vecchio buongiomo,
se ne vanno quei cari proverbi
ch’erano gli ori di tutto un vicinato.
RACCONTO ELETTORALE
La Califomia,
come no!
Già vedevo
allo scalo merci in fila
ceste di aranci,
avrei sentito la sera
per i vicoli
l’allegria della Luce Elettrica
e del Pane Bianco.
Fu là,
in piazza.
Le 10,30 precise
dell’uva fragola
mangiata dalla nebbia.
Alla sua bocca elettorale
già fioriva Lamezia
con le sue fattorie,
i vigneti erano in ordine, puliti,
l’olivo potato con il coltellino,
e splendevano trattori, corsi d’acqua:
La Califomia,
certo!
A Sant’Elia,
coi morti che si calano
sul dorso d’una mula,
a Sant’Elia
come a Vallericciarda
già saliva l’asfalto.
Alberi, diceva,
dalle radici profonde
e a larghi gesti
cancellava le frane.
La California,
sissignore!
Alle 12
alto come il sole
lo videro fermarsi
in mezzo ai paesani
e sorridere, sparire
nella polvere del seguito.
APOLOGO
Adesso
appena fa buio
in giro non c’è più nessuno.
Sembra inverno, le due.
Non ti godi né un bar
né la luna, se c’è.
Così te ne torni
alla cupa, a dormire.
Tua madre che aspetta
ora accosta il balcone,
è tranquilla.
‘Manco i cani’ ti dice.
‘Una botta per sbaglio
e ti trovano morto ammazzato’.
Certe sere, a tornare
non c’è lampadina.
L’avrà rotta un ragazzo
a pietrate.
Ma quel buio
sai che vuoI dire,
sei nato
fra lampi di siepe
e t’affretti,
il cuore lo senti:
non sai se stavolta
rincasi da te,
coi tuoi piedi.
Poi mi dici
la Legge, il maresciallo.
Che vuoi fare
fra vicoli e monti
che ancora ignoriamo.
L’appuntato
può metterti dentro un
capraio dei Margi,
far cantare in caserma
un Baggiano che ruba
nell’orto di Renda,
e in piazza lo senti
che grida, lo piglia a nerbate.
Ma puoi dire chi è
che ti brucia la vigna,
ti spara di notte sui vetri.
Brutta razza,
bisogna star zitti,
far finta di niente.
Un proprietario
uccello grifone,
un galantuomo di macchia,
un assessore
dopotutto lo cerca
un tamarro
che gli guardi le spalle,
a un bel momento
ti prenda di petto un poveruomo,
pistola puntata,
ohè, rispetta il bottone.
No.
Non è
la miseria,
la fame soltanto.
Non è
per un pezzo di pane
che a volte accompagni
con due peperoni
così ardenti
che dentro ti bruciano
e sazio lo sei.
Sparare
è nel sangue,
si nasce;
un male di natura
com’ è la perono spera
la siccità la grandine .
Basta sì
una storia di niente:
la cima d’ulivo
che pende oramai
nella tua proprietà
ma ch’è mia,
non devi toccare.
V’è un dolore
di prima mattina
che il mondo non può capire
ne raggiungere.
Soltanto gli uomini
potrebbero aiutarsi,
arrivare
dove arrivano mai
due carabinieri.
Ma qui,
non c’è inizio
ne fine di niente:
e in piazza
già ti spiegano
le pallate di stanotte
a Spartivento.
CONTINUAZIONE
Anche voi
così lontani
ma del suo stesso sangue
della sua stessa razza accanita,
smettetela con le nostalgie,
non mortificatela
con quel dollaro spaccone
in una busta,
con quel pacco di vestiti usati.
Le basta lo scialle nero
che vi coprì bambini.
Che volete,
voi, voi tutti,
che volete di più.
Ditelo, vi ha sempre detto di sì,
non sapeva firmare
e vi ha messo i segni di croce
che tutti volevate.
Prendetevi
allegria e gioventù
e seppellitele in una miniera.
È carne, vita sua
ma forte,
cresciuta con latte e disgrazie.
Prendetevi anche il cielo
questo azzurro così antico così raro
portatevelo via.
Lasciatela
al cantuccio
della sua lucerna,
sola,
col ricordo
del nipote minatore.
Non venite a bussare
con cinque anni
di pesante menzogna.
NOI DOBBIAMO DECIDERCI
Prima dell’acqua
la Corte d’Assise.
Prima del sole
la mosca olearia.
E giorno fu
Ecco,
io e te, Meridione,
dobbiamo parlarci una volta,
ragionare davvero con calma,
da soli,
senza raccontarci fantasie
sulle nostre contrade.
Noi dobbiamo deciderci
con questo cuore troppo cantastorie.
ULTIMA UVA
Che volete,
che volete ancora
da questa terra.
Vi paga
il canto del gallo
bimestre per bimestre,
paga il sale
come se fosse argento,
paga l’erba l’origano,
vi paga anche la luna nuova.
Che volete di più,
ditelo e lo farà, ma
lasciatela in pace.
E’ così stanca
di sentirsi ripetere
il pane l’albero
il barile dell’abbondanza
e di aspettare,
di aspettare, aspettare…
Prendetevi
l’ultima uva
ma non tormentate
col patto degli acquedotti.
dell’abbondanza,
e di aspettare,
di aspettare, aspettare…
Prendetevi
l’ultima uva
ma non tormentatela
col patto degli acquedotti.
Prendetevi
anche la madia
il setaccio
ma rispettatela almeno
nell’ estrema unzione
dei suoi uliveti.
Ha veduto i suoi figli
morire di dissenteria,
partire da emigranti,
andare ammanettati.
Ha veduto contare
dal regio scrivano
tutte le sue pecore
una per una.
Ha veduto posare
casse di munizioni
nei campi di granturco
e bruciare le masserie le case.
Adesso
lasciatela,
lasciatela sola
al confine delle sue foglie.
Quanti anni di sole
ci sono voluti per capire
tanta oscurità,
tanto disordine di frane
e di vicoli,
e poi l’ordine,
l’ordine dei carabinieri.
Lasciatela.
Un’amicizia
in tanti anni,
un affetto sincero
non l’ha mai avuto.
Mai nessuno
che un giorno al balcone
le abbia parlato
di un vestito
di un bel paio di scarpe,
le abbia spiegato
in confidenza
come si prepara una tavola,
qui il coltello,
qua il cucchiaio, la forchetta.
Lasciatela.
Con una brocca
o un bicchiere di cristallo
berrà sempre
al pozzo del suo dolore.
Anche voi
così lontani
ma del suo stesso sangue
della sua stessa razza accanita,
smettetela con le nostalgie,
non mortificatela
con quel dollaro spaccone
in una busta,
con quel pacco di vestiti usati.
Le basta lo scialle nero
che vi coprì bambini.
Che volete,
voi, voi tutti,
che volete di più.
Ditelo, vi ha sempre detto di sì,
non sapeva firmare
e vi ha messo i segni di croce
che tutti volevate.
Prendetevi
allegria e gioventù
e seppellitele in una miniera.
È carne, vita sua
ma forte,
cresciuta con latte e disgrazie.
Prendetevi anche il cielo
questo azzurro così antico così raro
portatevelo via.
Lasciatela
al cantuccio
della sua lucerna,
sola,
col ricordo
del nipote minatore.
Non venite a bussare
con cinque anni
di pesante menzogna.
LA ROSA NEL BICCHIERE
Un pastore
un organetto
il tuo cammino.
Calabria,
polvere e more.
Uova
di mattinata
il tuo canestro.
Calabria,
galline
sotto il letto.
Scialli neri
il tuo mattino
di emigranti.
Calabria,
pane e cipolla.
Lettera
dell ‘ America
il tuo postino.
Calabria,
dollari nel bustino.
Luce
d’accetta
l’alba
dei tuoi boschi.
Calabria,
abbazia di abeti.
Una rissa
la tua fiera
Calabria,
d’uva rossa
e di coltelli.
Vendetta
il tuo onore.
Calabria,
in penombra,
canne di fucili.
Vino
e quaglie,
la festa
ai tuoi padroni.
Calabria,
allegria
di borboni.
Carrette
alla marina
la tua estate.
Calabria,
capre sulla spiaggia.
Alluvioni
carabinieri,
i tuoi autunni,
Calabria,
bastione
di pazienza.
Un lamento
di lupi,
i tuoi inverni.
Calabria,
famigliola
al braciere.
Francesco di Paola
il tuo sole.
Calabria,
casa sempre
aperta.
Un arancio
il tuo cuore,
succo d’aurora.
Calabria,
rosa nel bicchiere.
BIOGRAFIA
Il poeta nacque a Sambiase, il 27 agosto 1924 da Michelangelo Francesco Pietro Costabile e da Concetta Immacolata Gambardella, una brava casalinga appartenente ad una facoltosa famiglia di commercianti amalfitani. Il padre però non si sente a suo agio nel piccolo centro calabrese e dopo il matrimonio si reca in Tunisia per dedicarsi all’insegnamento, abbandonando moglie e figlio.
Nel 1933 Concetta si reca col figlio piccolo nella nazione africana per convincere il marito a riunire la famiglia, lo trova lì accasato, e non ottiene il risultato sperato anche per via del suo rifiuto di lasciare Sambiase. Questa esperienza segnerà il poeta, a cui farà riferimento nel componimento giovanile “Vana Attesa”, pubblicata nel 1939 dall’Editrice Nucci nel 1939.
A parte la quinta ginnasiale, che Franco frequenta nella città di Montaleone, la futura Vibo Valentia, tutti le altre classi soso frequentate nel suo paese natale (Scuole elementari) e a Nicastro, tra il 1930 e il 1943.
Dopo la maturità classica conseguita a Nicastro, si iscrive alla Facoltà di Lettere, prima a Messina e poi – dal 1946 – a Roma, dove si laureerà con una tesi in paleografia.
In questo periodo stringe un forte rapporto con Giuseppe Ungaretti, suo professore di Letteratura Contemporanea: in Costabile, Ungaretti rivede il figlio perduto da poco in Brasile, in Ungaretti il poeta sambiasino trova invece l’assente figura paterna.
Sempre durante gli studi universitari fa amicizia con Raffaello Brignetti ed Elio Filippo Accrocca. Dopo la laurea, a partire dal 1950 inizierà a insegnare in vari licei e istituti tecnici, collaborerando anche con riviste e alla stesura di una enciclopedia cattolica.
Nel 1950 pubblica a proprie spese il suo primo libro di poesie, Via degli ulivi, nei Quaderni di Ausonia, Siena, recensita favorevolmente da Giorgio Petrocchi nella rivista romana, <<La Via>>.
Nel 1953 sposa Mariuccia Ormau, sua ex alliva; testimone di nozze è l’amico Mimmo Purificato. Da questo matrimonio nascono le figlie, Olivia (1955) e Giordana (1957).
Sono anni duri per il poeta, che ancora nel 1961 lavora come insegnante precario nella scuola.
In questo stesso anno pubblica La Rosa nel bicchiere, raccolta di poesie, che il poeta aveva pubblicato nel corso degli anni Ciquanta su riviste; l’opera viene segnalata per il Premio Viareggio, ma non giunge in finale. Intanto alla RAI, a cura di Libero de Libero, viene fatta una lettura dei suoi versi da parte di Valeria Moriconi.
Mariuccia intanto si trasferisce a Milano portando con sé le due bambine: è un secondo distacco, un secondo abbandono familiare. Sempre in questo periodo si rompono definitivamente i rapporti col padre lontano, mentre nel 1964 muore la madre, affetta da un male incurabile.
Nello stesso anno sono pubblicate in un volume collettaneo, Sette piaghe d’Italia, tre sue liriche, tra cui Il canto dei nuovi emigranti, poesia per la quale riceverà il Premio Letterario Frascati.
Il 14 aprile del 1965, si toglie la vita e Ungheretti, al quale il Costabile si sentiva particolarmente legato, scrive alcuni risentiti versi, pubblicati originariamente in un “ricordino” stampato a cura degli amici e successivamente riportati nel n°35 di “L’Eurpa Letteraria”; i versi ungherettiani sono stati ora trascritti anche sulla tomba del poeta nella cappella di famiglia in Sambiase e sulla facciata della sua casa natale.
“Con questo cuore troppo cantastorie”
dicevi ponendo una rosa nel bicchiere
e la rosa s’è spenta a poco a poco
come il tuo cuore, si è spenta per cantare
una storia tragica per sempre.
Fonti:
http://www.ilportaledelsud.org/costabile_franco.htm