la Madonna Odigitria del Patire nella Chiesa di San Pietro e Paolo di Corigliano
autore del testo: Martino Antonio Rizzo
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La Madonna Odigitria presente nella Chiesa di San Pietro e Paolo a Corigliano è uno dei tanti tesori artistici poco conosciuti di Corigliano Rossano. Se questo dipinto si fosse trovato a Firenze, a Parigi, a Siena oppure in qualsiasi altra città famosa per l’arte di sicuro avrebbe avuto una notorietà diversa e avrebbe attratto molti più visitatori. Purtroppo però si trova in Calabria, regione che di solito viene trascurata dai manuali di storia dell’arte. Poi addirittura si trova sul versante ionico, zona ancora più isolata e così questo capolavoro non è tenuto nella considerazione che meriterebbe dagli studiosi di storia dell’arte, dal turismo e, a dire il vero, anche dai coriglianesi-rossanesi.
Testimonia tale situazione “di noncuranza” una ignara turista che su Tripadvisor, a proposito del suo incamminarsi verso il bellissimo e famoso Castello di Corigliano, riferendosi al dipinto presente nella Chiesa adiacente proprio al Castello, parla di «Tesoro inaspettato … un vero e proprio gioiello: l’icona della Madonna Odigitria».[1]
L’opera che risale al XV secolo e proviene dall’Abbazia del Patire è dedicata appunto alla Madonna Odigitria. È double face in quanto sul retro della tavola è dipinto Gesù in croce. Venne realizzata su commissione dell’Archimandrita del Patire Atanasio Calkeopoulos, secondo la prof.ssa Maria Pia di Dario Guida (2), tra il 1457-58. Il prof. Paolo Orsi afferma che dal Patire la «Madonna Odigitria in tavola, del secolo XV, di maniera bizantina, venne trasportata in tempo imprecisato nella chiesa di S. Pietro in Corigliano, dove oggi ancora essa è oggetto di grande venerazione. Mi è grato poterne dare qui, per la prima volta, una riproduzione fotografica, a figg.23-24.
Certo non è questa l’imagine antichissima e genuinamente bizantina dei primi del sec. XII, che non sappiamo per quali vicende distrutta ed oggetto di venerazione per quattro secoli, ma una copia della fine del sec. XV, che è probabile abbia in qualche guisa imitato l’icona più antica. Essa è in legno, ed è dipinta in ambo le faccie su fondo d’oro. Da un lato vi si vede Cristo in croce, fra la Vergine e S. Giovanni, dall’altra il busto della Vergine col divino Infante nelle braccia, colla leggenda (traduzione in italiano dall’originale in greco) “Madre di Dio” “la Nuova Odigitria” ed in basso un’altra epigrafe a caratteri aurei: “L’Archimandrita Attanasio Calceopilo, figlio di Filippo, offre e chiede alla Madre di Dio la grazia della Salvezza per quelli che si avvicinano”. È bene notare che questo Atanasio Calceopito, archimandrita del Patirion, fu poi vescovo di Gerace, e vi morì nel 1497, dopo avere determinata l’unione delle chiese di Oppido e di Gerace». (3)
Insomma il dipinto è una copia, realizzata nel XV secolo, dell’antica icona della “Neo-Odighitria” a cui San Bartolomeo di Simeri aveva dedicato il Monastero del Patire. Racconta Padre Mariano Rende nel suo testo sul Monastero del 1717 che «oltre l’Altar Maggiore ha cinque altari; al lato dritto è il primo quello dove venerasi l’effigiata Gran Madre di Dio, detta del Patire, in atto di sedere col Bambino, dipinta in legno, di cui dipettura ancor fresca mantienesi, e ‘l legno altresì incorrotto ed intero, avengacché antichissima è. Stiè per molti secoli affisso e fabbricato avanti la colonna della tribuna al destro lato, a quella, a punto, ch’è lato della cappella ov’è quest’altare alla Vergine; indi fatta questa cappella si tolse di là e ritrovossi esservi altra pittura dietro, con esservi effigiato Cristo Crocifisso, la Vergine ed il discepolo Giovanni, niente questa, per essere stata affissa al muro, guasta o macchiata; tuttavia ancor fresca e bella conservasi, effigie che movono a divozione e tenerezza qualsisia cuore». (4)
Secondo Paolo Orsi al Patire «molti restauri si fecero nel 1705, e verso il 1752 si ricorda la costruzione di un sontuoso altare in marmo sul quale si venerava la imagine della Odigitria». (5) Quindi, essendo la “antichissima” tavola dipinta attaccata alla parete del primo altare, per secoli venne trascurato l’altro dipinto presente sul secondo lato della medesima tavola.
Pierre Batiffol (6) dice che San Bartolomeo, fondatore del Monastero, avvertì l’esigenza di dotare l’Abbazia di manoscritti per l’interpretazione della sacre scritture ed è per questo motivo che insieme ad alcuni monaci si recò a Costantinopoli – la Nuova Roma – per acquisire testi, vasi e icone al fine di arricchire la sua giovane istituzione. Non a caso in Vaticano ci sono codici provenienti dal Patire che sono più antichi della fondazione dello stesso Monastero. (7) Ed è da questo viaggio che con molte probabilità giunse in Calabria anche la prima Odigitria del Patire, di sicuro con caratteri bizantini perché fin dai primi secoli della cristianità, si sviluppò nell’Oriente greco il culto della Vergine e in particolare quello della Madonna dell’Odigitria. A Costantinopoli, un dipinto dell’Odigitria, oggi scomparso, era collocato in una chiesa del V secolo del monastero di Hodegon (detto anche Monastero della Panaghia Odigitria) ed era famoso in quanto si narrava che ne fosse autore San Luca, protettore dei pittori e immortalato dal Vasari nel XVI secolo, nella Santissima Annunziata di Firenze, proprio mentre dipinge la Vergine. E in proposito tanti sono i dipinti che raffigurano monaci intenti a trasportare la Madonna dell’Itria. In Calabria è importante quello del 1852 nella Chiesa della Trinità di Polistena del pittore Brunetto Aloi (1810/ 1893).
Quella che invece si può ammirare oggi nella Chiesa Collegiata di San Pietro e Paolo a Corigliano rappresenta per molti esperti, come già detto, una copia realizzata nel XV secolo, secondo alcuni, da un “madonnaro locale” mentre per la di Dario Guida è da inserire tra quelle “icone bizantineggianti” diffusesi in Italia dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei veneziani.
Bizantineggiante sì ma che di sicuro rappresenta un’evoluzione rispetto ai normali canoni della pittura bizantina e ciò appare evidente se si mettono a confronto la Vergine del Patire con la Santissima Achiropita della Cattedrale di Rossano che invece ha uno stile bizantino puro.
Nell’Achiropita di Rossano, secondo Biagio Cappelli, «le estatiche figure divine sono composte nello schema tipico dell’Odigitria» (8). Opinione condivisa da Cecilia Perri per la quale «l’Achiropita, così come la Madonna di Santa Maria Maggiore di Roma e quella di Santa Maria d’Antiqua con cui condivide l’iconografia, è spesso segnalata come una delle forme primordiali dell’Odigitria».(9)
Questa valutazione però non trova tutti concordi. Infatti per la di Dario Guida «né a livello iconografico e teologico l’icona (Achiropita) di Rossano può essere definita un’Odigitria o una modificazione di essa, in quanto nel suo tipo iconografico si registra una sostanziale diversificazione: la Vergine non è raffigurata nell’atto di indicare il Bambino – venendo così a mancare un dato teologico fondamentale – ma con le mani incrociate, un dato iconografico la cui base teologica non può essere che il riferimento alla doppia natura di Cristo». (10)
Comunque mettere a confronto le due immagini torna utile, pur consapevoli delle diverse datazioni e della diversa origine delle opere, per coglierne rispetto allo stile gli aspetti comuni e le differenze delle rispettive rappresentazioni.
In entrambi i dipinti la Madonna tiene in braccio il Bambino. Sempre in ambedue le icone Gesù con la mano sinistra benedice alla greca con le dita indice e medio ritti mentre il pollice è piegato sul dito anulare. Inoltre in tutti e due i dipinti Gesù regge nella mano destra il rotolo e sullo sfondo non si vedono né colonne e né altri figure religiose. La Madonna coriglianese inoltre di strettamente bizantino conserva «il fondo d’oro, una certa secchezza e schematicità del disegno, gli schemi iconografici e le scritte in greco …». (11)
Nei personaggi delle icone bizantine però si intravede sempre sui volti un velo di malinconia, con i lineamenti affilati, tagliati, con le figure stilizzate, appiattite, volte a dare alla raffigurazione innanzitutto la sensazione di una astrazione soprannaturale (acheropita: non dipinta da mano umana) capace di meglio descrivere le aspirazioni dell’uomo verso il divino.
Nel dipinto coriglianese invece, secondo la di Dario Guida «non si staglia una ieratica Madonna bizantina, ma una vergine quasi italiana, dolce e vibrante come una Madonna umbra o toscana, col vezzo del mignolo piegato all’esterno, il velo bianco ornato di un delicato merletto invece del cercine bizantino o del soggolo in uso anche a Venezia, il manto morbido e ondeggiante secondo cadenza tardo-gotiche, il bordo della veste e del manto decorato non più con astratte lettere pseudo-cufiche, ma con girari, bacche e aquile dalle ali aperte».(12)
Questa descrizione ben si inserisce nel contesto storico-artistico del secolo XV che vide, dopo il lungo periodo di predominanza dello stile bizantino, la rivoluzione artistica portata avanti prima da Cimabue e poi, ancora di più, da Giotto, con le loro rispettive scuole che inevitabilmente col tempo fecero maturare ed evolvere gli stili figurativi anche a Napoli dove Giotto lavorò per cinque anni a partire dal 1328 e dove, per esempio, un artista del livello di Roberto D’Oderisio ne raccolse l’eredità.
La Madonna coriglianese con i colori forti e decisi affascina gli ammiratori col suo mantello azzurro e con la dolcezza dello sguardo. Rivolge lo sguardo verso le persone, uno sguardo benevolo, compassato, umano, per certi versi anche, discreto, interessato sul perché dell’attenzione nei suoi confronti. Il maphorion azzurro, foderato di verde, che le copre anche la testa umanizza ancora di più la sua figura in quanto rappresenta un’evoluzione rispetto al mantello rosso, tipico dell’arte bizantina che serviva a rappresentare il potere con la “P” maiuscola, sia temporale che spirituale. Com’è noto i colori delle icone non sono mai casuali ma vogliono trasmettere precisi significati. Così le mani, con le dita allungate, come in altri dipinti della Madonna Odigitria, rivolte però, da madre, a differenza dell’Achiropita, verso il Figlio e non verso il popolo dei fedeli per indicare la strada da seguire, aldilà del significato teologico, contribuiscono a umanizzare maggiormente la figura arricchendola di materna dolcezza. Sul maphorion azzurro spiccano tre stelle, una sulla testa e due sulle spalle, antichissimi simboli siriaci della verginità. Inoltre sotto il mantello «con calligrafico motivo a racemi, includenti rotae con aquila araldica, borda il manto e la veste rossa; dal primo pende, per il risvolto sull’omero, una sottilissima frangia dorata». (13)
La tavola dipinta che misura cm. 122 x 86 e nel 1984 è stata oggetto di un intervento di restauro eseguito dal torinese Antonio Rava, rinomato professionista del settore, sotto la supervisione della Soprintendenza cosentina del Ministero della Cultura.
Tale intervento ha restituito all’opera «l’originale cromìa, offuscata nel tempo da strati di sudicio, depositati sulle vernici ossidate, e da piccole ma numerose ridipinture, alcune delle quali da addebitare ad un precedente restauro eseguito circa un ventennio prima». (14)
Dice Giuseppe Amato che «sulla medesima tavoletta su cui è dipinta la Vergine, vedesi un Crocifisso che Apelle (15) e Raffaello non avrebbero meglio fatto». (16)
Infatti sul secondo lato della tavola si può ammirare Cristo in Croce con la Madonna e San Giovanni con le scritte in greco “il Re dei Giudei” in cima alla Croce, mentre a destra della Madonna c’è la scritta “Madre di Dio” e sul lato opposto, vicino all’apostolo Giovanni si può leggere “Giovanni”.
La Crocifissione è uno dei temi più sentiti dalla cristianità in quanto rappresenta il sacrificio a cui si sottopose Cristo per la salvezza degli uomini, mostrando al contempo la sua natura umana.
Per la di Dario Guida la crocifissione della tavola coriglianese «è più schematica, ma anche qui lo stesso velo delicato avvolge la testa della Vergine e fa da perizoma al Cristo che poggia i piedi trafitti da un solo chiodo sul suppedaneo in prospettiva ricavato dallo stesso legno a venature decise che è servito per la croce e che si ritrova in più di un’icona neo-bizantina». (17)
La figura di Cristo in croce ricca di intensità e di pietà, non ha lo sbilanciamento del corpo che si nota in altri dipinti di epoca anteriore e tutto è proporzionato: il pettorale, la linea ascellare, le braccia. Il perizoma è un velo trasparente che accarezza il corpo con le pieghe che danno naturalezza alla stoffa.
La Madonna e San Giovanni di fronte alla tragedia della crocifissione hanno un atteggiamento compassato. Lei, con stringente malinconia, guarda il sangue del Figlio che scivola oltre il perizoma mentre San Giovanni, pensoso, fissa il volto di Cristo con la testa infossata sul petto e dall’insieme traspare tanta naturalezza nella drammaticità della scena.
«Ai piedi della Croce, in una piccola cavità scura, è dipinto il Calvario: cioè il cranio di Adamo su cui sgocciola il sangue di Cristo, simbolo della Redenzione». (18)
Insomma, la tavola di Corigliano pur non essendo un polittico con più scene, riesce comunque, col suo essere dipinta su due lati, a lanciare in un unicum più messaggi ai fedeli.
Concludendo questa breve e semplice dissertazione non si può non ricordare la forte valenza delle parole di Paolo Orsi che nel 1927 affermava che «la Calabria, terra vergine ed ancora sotto tanti aspetti inesplorati, io penso racchiuda ignorati documenti storici, monumentali ed artistici della bizantinità ai quali nessuno mai rivolse il pensiero e le cure» (19). Volendo aggiornare ai tempi odierni il concetto espresso dal grande archeologo trentino all’incirca un secolo fa, si potrebbe aggiungere che forse i beni calabresi non sono più ignorati ma di sicuro ancora non sono noti a un grande pubblico e certamente non sono valorizzati come meriterebbero per le pregiate peculiarità possedute.
(1) https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g1169489-d11743160-Reviews-Chiesa_Collegiata_di_San_Pietro-Corigliano_Calabro_Corigliano_Rossano_Province_.html#REVIEWS
(2) Maria Pia di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria. Dall’Alto Medioevo all’età aragonese. Roma 1999, pag. 121
(3) Paolo Orsi, Chiese Niliane. Il Patire di Rossano. in Bollettino d’Arte del Minis. Ben. Cult. 1923, Fasc. XII, pag. 553 – 554
(4) Mariano Rende, Cronistoria del Monastero e Chiesa di Santa Maria del Patire. Napoli 1717. Ristampa Guido Ed. 1994, pag. 42
(5) Paolo Orsi, idem, pag. 533
(6) Pierre Batiffol, L’Abbazia di Rossano. Contributo alla storia della Vaticana. Soveria Mannelli 1986, pag. 43
(7) Maria Pia di Dario Guida, Alla ricerca dell’arte perduta. Il Medioevo in Italia Meridiionale. Roma 2006, pag. 104
(8) Biagio Cappelli, Il monachesimo basiliano ai confini calabro-lucani. Napoli 1963, pag. 379
(9) Cecilia Perri, La Madonna Achiropita della Cattedrale di Rossano. Corigliano Rossano 2020, pag. 19
(10) Maria Pia di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria. Dall’Alto Medioevo all’età aragonese. Roma 1999, pag. 18
(11) Maria Pia di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria. Dall’Alto Medioevo all’età aragonese. Roma 1999, pag. 121
(12) Maria Pia di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria. Dall’Alto Medioevo all’età aragonese. Roma 1999, pag. 121
(13) Giorgio Leone, L’Odighitria. Il Serratore n. 12, Corigliano 1990
(14) Giorgio Leone, idem
(15) Apelle, pittore greco antico di cui parla Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia
(16) Giuseppe Amato, Crono-Istoria di Corigliano Calabro. Corigliano Calabro 1884, pag. 90
(17) Maria Pia di Dario Guida, La cultura artistica in Calabria. Dall’Alto Medioevo all’età aragonese. Roma 1999, pag. 121
(18) Giorgio Leone, idem
(19) Paolo Orsi, Le Chiese basiliane in Calabria. Firenze 1929, pag. 4